Nel tentativo di dare un’idea dell’effetto che fa avvicinarsi al cinema del regista russo Andrei Tarkovskij, ad uso di chi non ne conosce ancora nemmeno un fotogramma, potremmo provare a identificare alcuni termini che ne condensino altrettante caratteristiche.
Al primo posto potremmo mettere “tempo”. Tarkovskij si muove dalla premessa che il cinema sia un linguaggio a sé stante, e che questa peculiarità abbracci la nozione di tempo, dato che il cinema è l’unica forma d’arte, afferma Tarkovskij, in grado di misurarsi col tempo. Esso stesso si configura come vero protagonista dei film del regista russo, inteso come “l’ambiente” dell’inquadratura, il suo fluire ritmico e materiale, (famoso il suo saggio sul cinema intitolato “Scolpire il tempo”), la cui rappresentazione viene ad essere prioritaria rispetto alle categorie invischiate di razionalità che organizzano le immagini in narrazioni.
Le vicende raccontate nei suoi film, infatti, specialmente da Stalker in poi, corrispondono solo ad una premessa di familiarità con la quale prendere per mano lo spettatore per poi condurlo altrove, lungo un percorso che prende le mosse, come accade per la poesia, che è vista da Tarkovskij come fondamentale fonte di ispirazione, da una irriducibilità del suo contenuto se non in un’ottica totalizzante: la pietra di paragone del cinema, come della poesia, dell’arte tout court, non può essere altro se non la vita stessa.
Dal punto di vista formale spesso il regista russo indugia nell’uso di elementi atti a creare un’enfasi che potremmo definire “psichedelica”: piani sequenza letteralmente infiniti (per esempio il lunghissimo carrello che segue il terreno scorrere via sotto la cinepresa in Stalker), metafore e simbologie ripetute ossessivamente prive di un riferimento razionale (l’acqua che di continuo scroscia nelle inquadrature, ad esempio in Nostalghia, Lo Specchio e Solaris), l’uso di una fotografia che spesso distorce gli elementi dell’inquadratura in chiave “espressionistico-metafisica” (vedere il finale di Stalker per farsene un’idea), i continui richiami tematici alla follia, al sacro e alla religione, che imperniano quasi tutti i suoi film.
“Psichedelico” sarà infatti il secondo termine della nostra griglia: Tarkovskij è, insieme a Fellini e Bunuel, un maestro nella costruzione di uno stato “oniroide” nello spettatore atto ad amplificare lo status dell’esperienza spettatoriale in cerca di una comunicazione operante ad un livello profondo, situato al di là delle maglie del pensiero razionale (“sono dove non penso” avrebbe detto Jacques Lacan).
Il terzo termine è “ritmo”. Abbiamo già fatto cenno all’importanza del tempo nel cinema di Tarkovskij, sovente infatti il regista di Zavraz’e rallenta il ritmo dei propri film fino ad arrestarlo a volte del tutto (accade ad esempio sia in Nostalghia che in Stalker), in un supremo tentativo di rendere il cinema uguale alla pittura medioevoale-rinascimentale; varie immagini di quadri campeggiano per altro nei suoi film, (in Sacrificio e in Solaris), inserite per portare lo spettatore dentro il quadro, come un prosecuzione analogica di ciò che viene mostrato dal film.
Diviene chiaro allora l’intento del regista di entrare nel solco di ciò che facevano i pittori in un’epoca nella quale, con la totale assenza dei mass media, l’inconscio degli uomini e delle donne che ne facevano parte poteva essere colonizzato solo dalle immagini scaturite dai loro pennelli, suscitando forti emozioni oggi probabilmente in disuso di fronte ad un’ opera d’arte, (vedere l’effetto che un quadro di Leonardo produce in Otto, interpretato dall’attore bergmaniano Allan Edwall, in Sacrificio).
di Tommaso Perissi